Lo sostiene uno studio dell’Università di Oslo che, dopo aver sottoposto a test 250mila ragazzi tra i 18 e i 20 anni, ha rilevato come i fratelli maggiori abbiano mediamente un quoziente d’intelligenza superiore a quello dei secondi e terzogeniti di 2,3 punti. La causa? Ambientale. Secondo i ricercatori infatti i genitori tendono, statisticamente, a dedicare maggiori attenzioni al primo figlio anche sotto il profilo educativo e questo lo porterebbe a potenziare il proprio quoziente. Secondo Peter Kristensen, coordinatore dello studio, è possibile dimostrare che è questa, e non quella genetica, la ragione del fenomeno: i figli nati per secondi ma cresciuti come primogeniti (perché ad esempio il fratello maggiore era morto da piccolo) mostravano un’intelligenza più sviluppata della media. Nella foto: Terence Tao, giovane professore all’Università della California (Usa) ed ex bambino prodigio che a nove anni iniziò a seguire corsi universitari di matematica.
Come si misura l’intelligenza?
C’è però un problema: nonostante i test che misurano il QI, non esiste a oggi una definizione di intelligenza pienamente condivisa dal mondo scientifico. «Oggi siamo più abili con compiti logico-matematici rispetto a cinquant’anni fa», ha spiegato in un’intervista il filosofo e divulgatore Francesco Cavalli Sforza. «Visto che i test sull’intelligenza si basano soprattutto su queste caratteristiche, ecco che i punteggi schizzano in alto». Ma l’intelligenza è anche emotività e intuizione. «E poi i risultati dipendono dalla distanza culturale fra chi inventa il test e chi ci si sottopone», aggiunge Guido Barbujani, genetista all’Università di Ferrara, che a questo proposito cita un esempio: a partire dal 1913, lo psicologo americano Henry H. Goddard misurò il quoziente d’intelligenza di milioni di immigranti negli Stati Uniti concludendo che l’83 per cento degli ebrei, il 79 degli italiani e l’80 dei russi erano ritardati mentali. Nel dopoguerra tuttavia gli ebrei sono diventati intelligentissimi e bravi negli affari. Cosa dobbiamo imparare? Che questi test non ci dicono nulla delle capacità congenite, ma solo del modo di utilizzarle in un certo contesto sociale.
L’intelligenza aumenta (ma forse no)
Del resto se secondo alcuni studiosi nel corso dell’evoluzione l’umanità sta diventando sempre più intelligente, per altri le nostre capacità cognitive, limitate paradossalmente dalla tecnologia, stanno invece incontrando una battuta d’arresto. Probabilmente la verità è diversa: la mente umana si sta semplicemente trasformando, né in meglio né in peggio. Nel suo La mente che scodinzola (Mondadori Università), il direttore del Centro mente-cervello dell’Università di Trento Giorgio Vallortigara spiega che il quoziente d’intelligenza è influenzato da fattori genetici per non più del e il 60 per cento mentre il resto dipende dal contesto culturale. «La disponibilità di nuovi oggetti e l’obsolescenza di altri», spiega Barbujani, «modifica le nostre abitudini e con il tempo la nostra abilità di affrontare i problemi». Oltre a ciò per il momento non sappiamo nulla di più se non che nel nostro mondo iperconnesso i giovani non sono necessariamente più intelligenti degli anziani: semplicemente nuove e vecchie generazioni hanno sfruttato le proprie risorse cognitive in modi diversi.