Psicologi, neuroscienziati ma anche artisti e fotografi si sono interrogati sul linguaggio della fotografia alla ricerca di una “grammatica” di base di questa arte. In pratica, si sono chiesti cosa ci porti a dire che una foto è bella. Sicuramente non contano solamente gli aspetti puramente tecnici, come una corretta messa a fuoco. Piuttosto esistono delle costanti che accomunano le immagini che ci colpiscono di più: eccone tre.
1. La composizione: regolarità ma non troppo. Una bella foto mostra in genere soggetti disposti in modo ordinato: «Per comprendere ciò che vede, l’occhio deve poter essere in grado di percepire un senso», mi ha spiegato Daniele Zavagno, docente di percezione visiva e psicologia dell’arte all’Università di Milano-Bicocca. Questa legge, detta del raggruppamento percettivo, fu individuata dagli psicologi della Gestalt all’inizio del Novecento: «Il cervello prova soddisfazione a raggruppare macchie di colori simili», esemplifica il neuroscienziato indiano Vilayanur Ramachandran in L’uomo che credeva di essere morto (Mondadori). Il motivo? Si tratta dell’evoluzione di un istinto primordiale: «Il suo scopo originario era quello di consentirci di individuare facilmente i predatori nascosti dietro al fogliame». Ma in fotografia, come in ogni forma artistica, non ci sono leggi rigide: a volte quindi i fotografi solleticano la nostra curiosità creando un disequilibrio studiato ad arte. «L’artista sembra trovare l’equilibrio tra un’estrema regolarità, che è noiosa, e il caos piò totale», aggiunge Ramachandran.
2. L’effetto sorpresa: l’inaspettato che strappa un sorriso. «I soggetti belli come fiori, tramonti, gattini, modelle sono tra le immagini canoniche più fotografate», scrive Brian Dilg, regista e direttore della fotografia, in Perché ti piace questa foto? La scienza della percezione applicata alla fotografia (Gribaudo). Ma la bella fotografia è anche stupore. «Quando un elemento è accennato o mostrato solo vagamente o per niente, l’immaginazione dell’osservatore ne risulta stimolata». Lo nota anche Ramachandran partendo dai suoi studi sulle funzioni cognitive superiori: «Preferiamo questo tipo di occultamento perché per natura amiamo risolvere enigmi». La foto di un animale camuffato su uno sfondo di colore simile ci piace perché stimola la nostra attenzione: appena lo “scoviamo”, il nostro cervello sembra esultare.
3. La narrazione: cosa racconta una foto. L’immagine fotografica è fissa, ma sappiamo essere la rappresentazione congelata di un momento di vita reale. Ecco perché quando osserviamo la foto di una scena animata siamo portati a vedere movimento anche laddove non è visibile: a consentircelo sono le espressioni dei soggetti e la loro postura, il luogo e naturalmente la nostra tessa capacità di fare inferenze partendo dal contesto generale. «Il cineasta sovietico Lev Kuleshov condusse un semplice esperimento di giustapposizione di immagini», scrive Dilg. «Girò tre sequenze mute: una scodella di zuppa, un bambino in una bara e una donna distesa, accostando a ciascuna il primo piano di un attore. Quando mostrò le immagini agli spettatori, essi riferirono unanimemente che nelle varie sequenze l’attore appariva affamato, triste ed eccitato». Un discorso simile vale per le fotografie: se in una foto vediamo un bambino che corre con una mela in mano guardando dietro di sé e dietro a lui un negozio di frutta e verdura possiamo chiaramente intuire cosa è appena accaduto, e cioè che quel bambino ha appena rubato e sta scappando.
L’articolo completo su Airone, agosto 2019