Era l’11 agosto del 2015 quando Francesco Seramondi e la moglie Giovanna furono uccisi nella loro pizzeria di Brescia per mano di Mohammad Adnan. «L’ho ucciso perché mi impedivano di lavorare, non riuscivo più a pagare l’affitto del negozio», aveva affermato l’assassino. Ma per il giudice i rilievi hanno escluso che Francesco e Giovanna avessero mai interferito nella gestione dell’attività commerciale di Adnan, concorrente delle vittime. Il cui movente sarebbe stato un sentimento di semplice, banale invidia nei confronti dei Seramondi e della loro vita. Un sentimento distruttivo, questo, che – anche senza arrivare a conseguenze così drammatiche – tutti nella vita abbiamo provato. Non a caso la storia della cultura è piena di riferimenti all’invidia: nel buddismo è considerata un fattore che, facendo germogliare l’odio, accieca la personalità mentre Shakespeare, attraverso la figura di Iago, personaggio dell’Otello, rappresenta forse la massima espressione dell’invidia nella letteratura occidentale.
Inevitabile provare invidia
«L’invidia è un sentimento che ci accompagna per tutta la vita», mi ha spiegato Michele Roccato, docente di psicologia sociale all’Università di Torino e autore dello studio “Non desiderare la roba degli altri, non desiderarne la sposa: la psicologia sociale dell’invidia”, pubblicato alcuni anni fa dalla rivista Psicologia sociale. Si tratta di un’emozione fortemente sociale: «Deriva dal senso di mancanza o inadeguatezza che nasce dal confronto svantaggioso con qualcuno di simile a noi». In altre parole possiamo invidiare il collega che ha preso l’aumento, ma non la superstar che guadagna miliardi: è troppo distante da noi per sentire la competizione. «In quanto emozione sociale, spesso agisce senza che ce ne rendiamo nemmeno conto», dice Roccato. In particolare però si è scoperto che nasce quando nel soggetto mancano autostima e autoefficacia, ovvero la percezione di essere adeguati alle situazioni sociali. Quando dal confronto con gli altri emerge il nostro svantaggio tendiamo spesso a reagire con la paura, che ci spinge a diventare invidiosi. Ma non è sempre così: in alcuni casi il confronto con gli altri può diventare una forma di sana competizione. Solo così l’invidia si trasforma in un pretesto per migliorarci, e non per odiare. «In altre parole posso cercare di ridurre la differenza tra me e l’altro distruggendolo, ed è quello che fanno gli invidiosi “maligni”, oppure cercando di migliorarmi», spiega Roccato.
Cos’è la sindrome del Palio
Secondo i sociologi in Italia si sta diffondendo la cosiddetta “sindrome del Palio”: «Quando si corre il Palio di Siena», ha spiegato Gian Maria Fara, sociologo e fondatore di Eurispes, «il primo obiettivo non è vincere ma evitare che vinca l’avversario. È la metafora del comportamento degli italiani che non si preoccupano tanto di fare bene, quanto di evitare che altri facciano meglio». Questo è un problema nei contesti lavorativi. Per questo la sfida per le aziende sta nell’incoraggiare, attraverso il dialogo, un’invidia che si trasformi in ambizione al successo. Tuttavia chi invidia tende spesso a nascondere questo sentimento, di cui si vergogna: «Ad esempio si mostra indignato per la promozione di un collega fingendo di farlo per ragioni meritocratiche, quando in realtà è semplicemente invidioso», aggiunge Roccato. Ma il rischio è anche per chi è invidiato: «Ad esempio c’è chi mette in atto performance non ottimali per paura di fare bene ed essere invidiato».