La superstizione serve (o quasi)

superstizioneCambiate strada se un gatto nero vi passa davanti? Fate bene: secondo un recente studio i riti scaramantici funzionano. In cinque diversi esperimenti condotti presso la Booth School of Business della University of Chicago (Usa) è stato chiesto a volontari di tentare la fortuna in alcuni giochi dopo aver compiuto azioni scaramantiche come toccare ferro oppure non scaramantiche, come ad esempio lanciare una palla. Risultato? Chi aveva compiuto il gesto propiziatorio provava meno preoccupazione rispetto alla possibilità di un esito negativo della prova, e già questo è un primo effetto benefico della scaramanzia. Ma non solo: gli scaramantici che avevano perso la propria sfida avevano mostrato, tempo dopo, di aver dimenticato velocemente la propria malasorte e di non aver perso così la sicurezza in loro stessi.

Memoria selettiva

«La nostra ricerca», spiega Jane Risen, autrice dello studio, «suggerisce che la scaramanzia riduce l’aspettativa di eventi negativi e che ci aiuta a superarli quando, nonostante tutto, capitano». I riti scaramantici sono un tentativo di controllare l’incertezza della vita: «I superstiziosi si illudono che esista un rapporto di causa-effetto tra i loro gesti e gli eventi che accadono attorno a loro», mi ha spiegato tempo fa Silvano Fuso del Cicap, Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze. Nonostante questa relazione non esista, ce ne convinciamo con il meccanismo della memoria selettiva: «Basta che la coincidenza si verifichi una volta per avvalorare la tesi della superstizione», aggiunge Massimo Polidoro, giornalista e cofondatore dello stesso Cicap. «Al contrario ci dimentichiamo le centinaia di volte in cui non è successo niente».

Credulità popolare

Eppure noi italiani continuiamo a crederci, soprattutto in periodi di incertezza economica e sociale come questo. Così oggi alla superstizione tradizionale si affiancano fenomeni di misticismo alternativi: «Si sono moltiplicate forme di credenze semplicistiche, a volte commerciali», mi ha detto Enrico Comba, antropologo dell’Università di Torino, «anche se non credo che sia sempre un sintomo di crisi sociale: è piuttosto una ricerca di spiritualità che non richieda troppo impegno».

Quando urliamo al computer

Ma credere nella scaramanzia è inevitabile: «L’evoluzione ci ha spinti a vedere legami di causa-effetto ovunque», mi ha detto lo psicologo Matthew Hutson, autore di The 7 laws of magical thinking (“Le sette leggi del pensiero magico”) e di un ormai celebre pezzo uscito sul New York Times alcuni anni fa dal titolo “In difesa della superstizione”. Per illustrare quest’ultimo concetto il biologo inglese Lewis Wolpert ha spiegato che le origini delle credenze nel sovrannaturale vanno ricercate proprio nella passione umana per le spiegazioni causali. In pratica quando i nostri progenitori impararono a costruirsi utensili capirono che a ogni azione esercitata su di essi corrisponde un effetto: se affilo una roccia questa diventa tagliente e utile per cacciare, se la lancio contro un animale questo viene ferito. Questo ci avrebbe abituati a pensare che ogni nostra azione ha una diretta conseguenza sulla realtà, anche quando la prova dei fatti è lì a smentirci. «Inoltre», aggiunge Hutson, «siamo animali sociali, e questo non fa che rafforzare la credenza secondo cui dietro ai fatti ci deve sempre essere un’intelligenza come la nostra che li controlla». Non è un caso quindi se urliamo al computer quando questo si rompe come se fosse una persona in carne e ossa oppure se crediamo che toccando ferro il nostro esame andrà bene.

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