«Per quale motivo mi chiami “lurida schifosa” e “ruba uomini”?», chiede Belén Rodriguez. «Non sono l’unica che dice queste cose», risponde Mary. «Sei un personaggio famoso e quindi devi accettare le critiche». Il dialogo tra la nota showgirl argentina e una delle sue più accanite hater è avvenuto nel corso di una puntata del programma tv Le iene. Come molti altri personaggi noti, Belén è infatti spesso oggetto di pesantissimi insulti da parte di utenti di Facebook che, forti del (relativo) anonimato permesso dalla rete, riversano su di lei da dietro il loro schermo frustrazioni e rabbia. Il fenomeno è quello dei cosiddetti “leoni da tastiera”, come li ha soprannominati la blogger Selvaggia Lucarelli, anche lei frequente oggetto di odio online. Abituati a usare la rete e i social nel peggiore dei modi, ovvero per prendersela con gli altri e spesso con intere categorie di persone (donne, minoranze etniche, omosessuali, immigrati), gli hater sono cresciuti esponenzialmente di numero nel corso degli anni. Lo ha dimostrato lo studio Discorsi d’odio e social media, condotto da Arci e Cittalia nell’ambito del progetto Prism contro l’odio online. Per illustrare il fenomeno, lo scorso anno l’associazione Vox, Osservatorio italiano sui diritti ha analizzato oltre 2,6 milioni di tweet pubblicati tra agosto 2015 e febbraio 2016 e riferiti alle categorie maggiormente oggetto di messaggi offensivi: donne, omosessuali, ebrei, immigrati e diversamente abili, il tutto con la consulenza delle università di Milano, Bari e della Sapienza di Roma. Risultato: principale bersaglio sono proprio le donne, belle e celebri come Belén ma non solo, vittime del 63 per cento dei tweet negativi. Seguono quasi a pari merito omosessuali e immigrati.
Troppo virtuale…
Certamente l’emersione di tanta aggressività è stata favorita anche da due aspetti peculiari della comunicazione digitale. Da un lato c’è lo schermo, che difende l’hater perché lo nasconde dandogli un senso di impunità. Ma non solo: «Online la comunicazione è fortemente polarizzata: o ci si ama o ci si odia», mi ha spiegato Paolo Ferri, docente di Tecnologie didattiche e teoria e tecnica dei nuovi media presso l’Università di Milano Bicocca. «Questo dipende dal fatto che mancano i segni della presenza, la cosiddetta prossemica: non si sente il tono di voce dell’interlocutore, non se ne avverte la fisicità, non si coglie l’ironia e si tende quindi a male interpretare le parole dell’altro, in genere in senso negativo», aggiunge. A farlo notare è anche Patricia Wallace ne La psicologia di Internet (Cortina), di cui Ferri ha curato l’edizione italiana. «Il fraintendimento dei messaggi di testo può trasformare quello che potrebbe essere un utile confronto in uno scambio aggressivo e ostile», scrive l’autrice.
Aggressività online, inevitabile
Proprio a questo proposito Wallace fa riferimento a un vecchio studio, condotto addirittura nel 1996, sulla comunicazione via mail: già allora Philip A. Thompsen dell’Università della Pennsylvania (Usa) mostrava, in un articolo uscito su Computers in human behavior, la tendenza innata degli utenti più esperti su temi specifici a dedicarsi al mobbing verbale nei confronti di quelli appena entrati in una conversazione e percepiti come principianti: «L’interazione presenta una sequenza graduale che inizia con un disaccordo, per poi sfociare in una lite vera e propria», scrive. Insomma, online trascendere verso l’aggressività sembra praticamente inevitabile. C’è poi la questione dell’analfabetismo digitale: «Ancora oggi infatti molti utenti non si rendono conto che la nostra identità su Facebook è vera quanto quella reale», dice Ferri. In altre parole, ci si lascia andare a commenti che dal vivo non faremmo mai ignorando il fatto che, ancorché digitale, l’insulto resta un insulto e dunque passibile di denuncia. «Certamente i cosiddetti nativi digitali sono più coscienti del fatto che la nostra identità online è tutt’altro che virtuale», conclude Ferri.
L’articolo completo su Airone, ottobre 2017