Alla fine è stato ucciso dal suo stesso rancore, Vester Lee Flanagan (foto). Il killer che in Virginia (Usa) lo scorso 26 agosto ha ucciso una reporter e un cameraman del network Wdbj7 mentre erano in diretta tv – afroamericano, ex giornalista e collega delle vittime – avrebbe agito per vendicare la strage di Charleston, in South Carolina, dove il 17 giugno furono assassinati nove afroamericani. Tuttavia secondo le testimonianze nel folle gesto del killer era racchiuso anche il rancore covato, e fino a quel momento non espresso, per la mancata assunzione all’emittente ottenuta invece dalle due vittime, oltre al disagio vissuto per le presunte discriminazioni razziali subite sul lavoro.
Verso chi proviamo rancore?
Ed è proprio questo l’aspetto che rende un certo tipo di rancore causa di odio e talvolta di crimini: «Il termine ha un’origine tardo-latina e viene dal verbo rancere, che si riferisce a un cibo andato a male», scriveva la psicologa dell’Università di Padova Valentina D’Urso in uno studio sul tema pubblicato nel 2007 da Psicologia contemporanea. Dall’indagine emergeva che tra i giovani a causare questo sentimento sono ferite più frequentemente provocate da amici o ex fidanzati (48 per cento dei casi) mentre tra gli adulti sono più spesso i familiari (24 per cento dei casi) e i colleghi (39 per cento) la causa di sentimenti rancorosi.
Provare risentimento è normale
In ogni caso però a differenza della rabbia, del risentimento e dell’astio, il rancore è frutto di rimuginazioni che durano talvolta anni o comunque molti mesi. «Questo», scriveva D’Urso, «spiega come vengano preservati, perché rievocati più e più volte, eventi e particolari di eventi anche lontani nel tempo». Il rancore è quindi tutt’altro che immediato e incontrollabile. «Provarlo fa parte della nostra natura umana», scrive Laura Tappatà, filosofa e già docente di Psicologia generale all’Università Cattolica di Milano, nel suo recente Il dono del rancore (Sefer), «perché ogni afflizione o offesa rivolta a noi stessi è una ferita narcisistica (…). Il dolore ha bisogno di tempo per lavorare, respirare e ritrovare l’equilibrio».
Perché rimuginiamo sul passato
Che il rancore sia frutto di un pensiero razionale e non di un moto istintivo lo dimostra anche il fatto che quasi sempre cerchiamo di spiegarlo o di giustificarlo: Flanagan non ha semplicemente ucciso, ma si è filmato e ha postato il video sui social network dopo aver raccontato in una lettera le sue folli ragioni. Così anche con i piccoli torti quotidiani: «Sia immediatamente dopo l’evento sia successivamente si parla con amici, parenti, colleghi», aggiungeva D’Urso. «Rievocare continuamente aggrava la voglia di fare un rewind, per cancellare un pezzo della nostra storia».
Le religioni colpevolizzano il rancore
Il risentimento ha però diversi volti, e a volte ha una sua ragion d’essere: «Ci sono cose che non possiamo perdonare e per le quali il rancore è un sentimento umano, una passione che non va mortificata», mi ha detto Tappatà. La colpevolizzazione del rancore è però radicata nella nostra cultura: «Le religioni monoteiste sono concordi a considerare il perdono una virtù che ci rende più vicini a Dio, ma questo non è sempre possibile e soffoca la nostra natura. Meglio un onesto rancore che un perdono solo di facciata». Il rancore è quindi una forma di genuinità: la capacità di guardarlo in faccia è già di per sé una terapia e ci fa stare meglio.
L’articolo completo su Airone, ottobre 2015