Ragazze, siete tornate dal mare e ora vi sentite brutte al confronto dei fisici mozzafiato stile Baywatch che avete visto in spiaggia? Probabilmente state esagerando (sempre che non siate Betty Suarez, foto, celebre protagonista della serie Ugly Betty interpretata dall’attrice America Ferrera). Bellezza e bruttezza sono infatti, almeno in genere, soggettive: «L’immagine di se stessi e la sua formazione», mi ha spiegato il terapeuta romano Luca Saita, autore del recente La sindrome del brutto anatroccolo. Perché ci si sente brutti e come recuperare l’autostima (Franco Angeli), «fanno parte di un processo dinamico che si sviluppa nel tempo, già dall’infanzia e dall’adolescenza». Talvolta però in questo processo qualcosa può andare storto fino a portarci alla convinzione, che nel corso della vita tende a radicarsi, di essere oggettivamente brutti.
Colpa dei giudizi rigidi…
Ma cosa può alterare una sana percezione del nostro corpo? Innanzitutto il ruolo degli altri, in primis i genitori durante l’adolescenza. Non di rado alcuni proiettano sui propri figli le loro stesse inadeguatezze, deridendoli sul loro corpo: «Per esempio, una madre può dire a una figlia che è meglio che non indossi certi abiti, perché ha una brutta forma del corpo, quando è evidente come questo sia più che altro un problema del genitore», aggiunge Saita. Così le giovani finiscono con l’etichettarsi: a forza di sentirsi definire “la ragazza con il sedere troppo grosso” iniziano a credere che la loro condizione fisica è oggettiva e immutabile.
…e parziali
Spesso da adulti le cose non cambiano: crescendo tendiamo a giudicare rigidamente e parzialmente il nostro corpo. Un giudizio che raramente corrisponde a quanto gli altri vedono in noi. Nel 2009 Tal Eyal e Nicholas Epley, rispettivamente della Ben-Gurion University (Israele) e dell’università di Chicago (Usa), avevano dimostrato come la modalità con cui ognuno di noi valuta il proprio aspetto fisico è diversa da quella adottata dagli altri.
Gli altri non notano (solo) il naso grosso
Secondo l’ipotesi di Eyal ed Epley, confermata da uno studio su 106 studenti sottoposti al giudizio reciproco delle rispettive foto, quando ci viene chiesta una valutazione sulla piacevolezza del nostro aspetto fisico tendiamo a concentrarci su elementi isolati, specifici: le occhiaie, i capelli fuori posto, un mento pronunciato. Pare invece che gli altri abbiano la tendenza a giudicare il nostro aspetto più in generale, guardandoci nell’insieme. Con buona pace delle nostre ansie: gli altri infatti non si soffermano sui singoli difetti come facciamo noi che così finiamo quasi sempre col vederci molto più brutti di quel che siamo.
L’articolo completo su Airone, agosto 2015