Negli anni Ottanta lo si è creduto a lungo: la specie umana, si diceva, sta diventando sempre più intelligente. Fu allora che lo psicologo americano James Flynn dimostrò in due dei suoi più celebri studi – The mean IQ of Americans: massive gains 1932 to 1978 e Massive IQ gains in 14 nations: what IQ tests really measure, pubblicati rispettivamente nel 1984 e nel 1987 dallo Psychological Bulletin – che ogni anno l’intelligenza media mondiale, almeno nei Paesi sviluppati, è cresciuta nel corso del Novecento di un terzo di punto sulla scala utilizzata per misurare il quoziente di intelligenza. In pratica, circa tre punti ogni dieci anni. Ancora oggi alcuni dati sembrerebbero dargli ragione: negli Usa ad esempio sono ben 250mila i bambini iscritti a scuole speciali per allievi con quoziente d’intelligenza elevato (superiore a 140), quota che ogni anno sale del 30 per cento.
Le lepri e il papà di Flynn
Questa teoria però è ancora in larga parte dibattuta (ne parlo su Airone di luglio 2015). Del resto lo stesso Flynn racconta che quando chiedevano a suo padre cosa avessero in comune cani e lepri, lui rispondeva: «Niente: i cani sono fatti per cacciare le lepri». Oggi un ragazzino delle elementari saprebbe subito rispondere che lepri e cani sono entrambi dei mammiferi. Eppure ciò non significa che suo padre fosse stupido: «Educazione e tecnologie ci hanno abituati alla flessibilità del linguaggio, alla potenza dell’immagine, all’esercizio della logica», ha spiegato in un’intervista l’epistemologo e saggista Giulio Giorello.
Stiamo regredendo?
In particolare sono le tecnologie a trasformarci. Secondo il linguista dell’Università Roma Tre Raffaele Simone, in peggio. Per lo studioso infatti assistiamo oggi a una degenerazione della psiche prodotta da pc e smartphone. Nel suo Presi nella rete (Garzanti), Simone spiega che l’intelligenza alfabetica che l’uomo ha conquistato in millenni sta regredendo alla prima fase della scoperta umana del mondo, cioè quella legata alla visione e al racconto orale. Uno studio pubblicato da Science su un centinano di studenti di Harvard potrebbe dargli ragione: dai risultati emerge come oggi il web sia vissuto come un’estensione della nostra memoria, che così si indebolisce. Eppure nel 2010 un sondaggio del Pew Research Center di Washington (Usa) mostrava come per un buon 75 per cento degli 895 sociologi, giornalisti e psicologi intervistati la disponibilità continua di informazioni è solo un vantaggio. Che, alla fine, potrebbe favorire le nostre funzioni cognitive.
Cambiamento inarrestabile
Insomma, siamo più intelligenti dei nostri nonni oppure no? Prendiamo un esempio. Secondo molti anziani la generazione dei loro nipoti ha disimparato a fare i conti per colpa dei computer. Effettivamente oggi molti ventenni non sembrano più in grado di svolgere alcune semplici attività. Ma è veramente il caso di prendersela con la tecnologia che rende tutto più semplice? Forse no, se non altro perché quei nipoti si vedono probabilmente costretti, a loro volta, a spiegare ai nonni più e più volte come inviare un banale sms. In altre parole molti studiosi oggi sono d’accordo nel ritenere che nel mondo dei social network e dell’intelligenza condivisa nonna e nipote hanno entrambi torto. Nessuno dei due, cioè, è più intelligente dell’altro: semplicemente sono la dimostrazione del cambiamento cui sta andando incontro il cervello umano. Un cambiamento che ancora non sappiamo dove ci porterà.
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