Tutti vogliono essere il nuovo Tiziano Ferro: basta accendere la tv per rendersi conto del successo dei talent show, come il celebre X Factor dedicato al talento canoro (nel video le audizioni di Andrea Faustini, nostro connazionale talento di X Factor Uk). Ma esiste veramente il fattore X, quel misterioso dono che rende un bravo cantante (o attore, giocatore di scacchi, scrittore) un vero prodigio? Il tema è dibattuto: già dagli anni Trenta alcuni psicologi sostengono che per arrivare alle vette di qualsiasi abilità sia più utile l’impegno e il tempo passato a esercitarsi che una predisposizione innata. L’ipotesi è stata riportata in auge negli anni Novanta dallo psicologo svedese K. Anders Ericsson e poi ripresa nel 2008 dal giornalista americano Malcom Gladwell nel suo bestseller Fuoriclasse. Storia naturale del successo (Mondadori) in cui racconta le vite di personaggi arrivati al successo grazie alla pratica costante. Per Ericsson il talento è proporzionale al numero di ore passate a studiare o a esercitarsi e per eccellere ne servono circa 10mila. Era infatti questo il tempo che si era dimostrato necessario ai provetti violinisti di una scuola presso cui lo psicologo aveva condotto i suoi studi per raggiungere risultati eccellenti. Quelli che avevano accumulato “solo” 8mila ore si erano classificati al secondo posto mentre quelli fermi a quota 5mila vennero definiti solamente bravi.
Diventare campioni di golf da zero
Due anni dopo l’uscita del libro di Gladwell il fotografo americano Dan McLaughlin, definito un “uomo medio” sul sito thedanplan.com, ha messo alla prova la teoria. Senza particolari competenze sportive, ma con tanta determinazione, ha deciso infatti di iniziare un impegnativo programma di allenamenti con l’obiettivo di qualificarsi nel 2016 al circuito professionistico di golf Pga Tour. Ci riuscirà? Non lo sappiamo, certo però quest’anno un nuovo studio sembra mettere i bastoni tra le ruote a Dan: dopo aver preso in considerazione oltre ottanta ricerche condotte su un totale di più di 11mila partecipanti, Brooke Macnamara, David Hambrick e Frederick Oswald rispettivamente delle università di Princeton, Michigan e Rice (Usa) sono arrivati a dimostrare che la pratica conta poco. Secondo gli autori dello studio, pubblicato da Psychological Science, questa contribuisce infatti per poco più del dieci per cento, percentuale che sale al 18 per cento nello sport e al 26 nelle abilità cognitive come il gioco degli scacchi.
Prima regola: ottimismo
«L’idea romantica secondo cui il talento è sempre innato e l’esercizio non serve va abbandonata», mi ha spiegato Alessandro Antonietti, docente di psicologia cognitiva applicata all’Università Cattolica di Milano. «Tuttavia la pratica da sola non basta». Di mezzo ci sono infatti anche altri fattori: personalità, intelligenza, predisposizioni specifiche, contesto in cui cresciamo e l’età a cui ci avviciniamo alla pratica. Come prima cosa, infatti, i talentuosi sono psicologicamente predisposti a essere ottimisti e sicuri di sé: «Valutano la strada che li separa dal successo senza sovrastimare o sottostimare le proprie capacità, accettano le sfide e sanno mantenere i piedi per terra», spiega Fernand Gobet, docente di Psicologia cognitiva presso la University of Liverpool (Regno Unito).
Scopri le altre regole del talento nell’articolo completo su Airone, dicembre 2014