Basta crederci…

24042014Florence Foster Jenkins era una cantante lirica americana vissuta tra il 1868 e il 1944. A renderla nota non furono le sue doti vocali. Priva di senso della melodia e del ritmo, è infatti citata come la peggiore cantante della storia: provate ad ascoltare qui come “massacrava” la celeberrima aria della Regina della notte di Mozart. Eppure grazie ai suoi spettacoli autofinanziati, la Jenkins (nella foto, interpretata da Neva Rae Powers) divenne un mito: le sue esibizioni attiravano un grande pubblico desideroso di osservare da vicino questo fenomeno da baraccone. Florence infatti non fu mai cosciente della sua incapacità canora, arrivando a credere che i fischi del pubblico fossero in realtà ovazioni. Tanto che, secondo quanto raccontò chi le stava vicino, finì i suoi giorni con lo stesso senso di appagamento che pervase la sua intera vita artistica.

La forza degli autoinganni
Il caso della cantante rappresenta ciò che alcuni psicologi hanno definito “paranoia positiva”: un autoinganno che fa vivere (in apparenza) serenamente. Almeno finché il soggetto non si risveglia dalla sua illusione. Naturalmente questa strategia non assicura un vero benessere: «L’inganno non può durare per sempre. Studiando la mente delle persone come la Jenkins ci rendiamo sempre conto infatti di alcuni attimi di chiarezza in cui vedono improvvisamente la realtà per quello che è», mi ha spiegato Italo Conti, psicoterapeuta romano autore di Autoinganni. Per non essere più vittime dei tranelli che ci costruiamo da soli (Franco Angeli). Così la delusione è dietro l’angolo, proprio come succede a chi, all’opposto, è convinto della propria inferiorità e inadeguatezza: «Entrambe le posizioni sono disfunzionali, cioè non adatte a vivere serenamente. In tutti e due i casi infatti non c’è flessibilità, ma una certezza incrollabile, positiva o negativa, che impedisce il cambiamento».

Quell’illusione che fa vivere bene
Senza arrivare alla condizione probabilmente patologica della Jenkins, entro certi limiti le convinzioni positive su di noi e sul mondo sono essenziali al nostro benessere psicofisico. «L’illusione è parte dell’esperienza umana», aggiunge Conti, «perché ci dà stabilità: vivere in un mondo prevedibile è un’esigenza fondamentale di ognuno». Non potendo ad esempio accertarci ogni giorno che il nostro compagno o la nostra compagna non abbia cambiato idea su di noi, ci illudiamo senza rendercene conto che il suo amore sarà eterno. Anche se razionalmente sappiamo che non è così. Lo dimostra la nostra fiducia verso il futuro: una ricerca su oltre cinquecento persone, articolata in quattro diversi studi e condotta oltre dieci anni fa da Michael Robinson e Carol Ryff delle Università dell’Illinois e del Wisconsin (Usa), aveva evidenziato infatti come le persone hanno la tendenza a credere che saranno più felici e soddisfatte nel futuro rispetto a quanto lo siano nel presente. «È una tendenza naturale, a meno che non siano disponibili evidenze assolutamente contrarie», sottolineano i ricercatori.

Ottimisti per forza di cose
L’illusione “buona” gioca un ruolo decisivo nella salute mentale: «Ci consente ad esempio di adattarci alla vita e di riprenderci dopo un evento stressante come ad esempio una malattia», aggiungono Robinson e Ryff. Proprio di fronte ai problemi di salute questa forma di paranoia positiva è fondamentale: lo dimostrano i ricercatori ungheresi Zsuzsanna Tanyi, Antal Bugán e Kornélia Szluha in un articolo apparso su Psychiatria Hungarica in cui gli autori mettono in luce, citando diversi esperimenti condotti in passato, il ruolo positivo delle illusioni nell’affrontare una malattia come il cancro. Uno di questi esperimenti è descritto nel volume Illusioni. Quando e perché l’autoinganno diventa la strategia più giusta (Giunti), in cui la psicologa americana Shelley E. Taylor racconta di un suo studio su 73 pazienti colpite da tumore alla mammella.

Illudersi fa bene alla salute
Quasi tutte, spiega la studiosa, dopo la diagnosi affermavano di sentirsi più serene in molti ambiti della vita. Il motivo? «Molti di questi riadattamenti positivi sembravano fondati su idee sbagliate o distorte che abbiamo finito per chiamare illusioni positive. Per esempio, molte delle pazienti dicevano di poter esercitare un controllo diretto sulla malattia per impedire che si ripresentasse, mentre dalle cartelle cliniche noi sapevamo che avevano già delle metastasi». Un’assurda illusione come quella della Jenkins? Probabilmente no, perché le pazienti mantenevano comunque una buona dose di lucidità. Dopo la guarigione, una di loro ha ad esempio affermato nel corso di un colloquio: «Non avrò mai più il cancro». Per poi aggiungere, rendendosi conto dell’autoinganno: «O altrimenti lotterò come ho lottato questa volta». Un’ottima strategia, perché illudersi fa star bene fisicamente: già nel 1957, lo psicologo Bruno Klopfer della University of California spiegò che un suo paziente affetto da un cancro inoperabile guarì assumendo un “innovativo” farmaco chiamato Krebiozen. In realtà era nient’altro che acqua distillata, ovvero… placebo.

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