Per qualche tempo, lo scorso marzo, sulle pareti di alcune stazioni della metropolitana di Milano è stato esposto un cartello: «Colpo di fulmine totale», vi si leggeva. Lo aveva scritto un ragazzo che a Rogoredo aveva incrociato lo sguardo di una ragazza, poi scomparsa tra la folla. Il suo scopo? Ovviamente ritrovarla. Oggi però esistano metodi migliori. Ad esempio Cityglance, un nuovo social network pensato proprio per permettere agli utenti dei mezzi pubblici di ritrovare la persona con cui hanno scambiato sguardi e ammiccamenti. «Oggi Cityglance si è evoluto – mi ha raccontato Carlo Banfi, ideatore insieme agli amici e colleghi Dino Ricceri ed Enrico Vecchio – trasformandosi per volontà degli utenti in una utility che offre anche altri servizi georeferenziati». Cityglance è una start up, piccola iniziativa imprenditoriale partita da poco e con poco. «Nessuno di noi tre è figlio di imprenditori», precisa infatti Banfi. Alla faccia della crisi e dei giovani sfiduciati.
Si può fare!
In Italia di realtà di questo tipo oggi se ne contano più di 450. Definite dal Decreto crescita 2.0 «realtà capaci di sviluppare prodotti o servizi innovativi», secondo i dati del Ministero dello sviluppo economico le start up sono concentrate attualmente nel settore dei servizi (325), seguito a distanza da industria e artigianato (90). Le attività principali hanno a che vedere proprio con il mondo digitale: 120 producono infatti software e fanno consulenza informatica. «Si tratta senza dubbio di un segnale incoraggiante: è la prova che il meccanismo sta iniziando a funzionare, anche se c’è bisogno ancora di tempo», ha spiegato in un’intervista Alessandro Fusacchia, consigliere dell’ex ministro dello sviluppo economico Corrado Passera.
Una società infantile…
Ma sono gli stessi protagonisti di queste realtà a testimoniare che ce la si può fare, nonostante crisi e complessità burocratiche tutte italiane: «Non è vero che in Italia i giovani non possono fare impresa. Certo ci vuole molto impegno e le difficoltà sono più numerose rispetto al resto d’Europa», aggiunge Banfi. Forse, quindi, non è sempre così vero che la società degli adulti chiude le porte in faccia agli under 30. Secondo un altro enfant prodige, il trentaduenne Alberto Mingardi che da due anni è direttore dell’Istituto di studi liberali Bruno Leoni, il problema piuttosto è un altro: la società italiana si è infantilizzata. «L’enfasi ideologica sul preteso diritto al posto di lavoro – mi ha spiegato – ha prodotto un effetto perverso: per tutelare un mercato ingessato, fa comodo se i nuovi entranti, cioè i giovani, ci arrivano molto tardi».
…e frignona
Così già dai tempi della scuola viene inculcata l’idea secondo cui il posto (meglio se fisso) è qualcosa che ci si deve aspettare dallo Stato. Un diritto inalienabile, prima che un impegno e una passione per la quale ci si deve e ci si vuole misurare, ogni giorno, con gli altri. Proprio come fanno i ragazzi delle start up. «Il risultato – conclude Mingardi – è che i giovani protestano per difendere lo stesso sistema che, garantendo chi c’è già e non chi bussa alla porta, li danneggia in prima persona». Nell’assurdo Paese di Don Camillo e Peppone (dove impegno, lavoro e accumulo di ricchezza sono per entrambi un peccato mortale) finisce sempre che a prevalere è la logica del lasciarsi vivere. E il sottile piacere dell’autocommiserazione frignona da piazza.