Alla prossima persona che si vanta di aver lavorato dalle otto del mattino alle dieci di sera, magari suggerendo che siete dei fannulloni, potete dire di tacere. A febbraio l’Ocse ha infatti pubblicato uno studio sulle ore di impiego dei lavoratori dei suoi 34 Paesi membri basato su dati del 2010. I risultati parlano chiaro: lavorare tanto non fa bene all’economia.
Fanalini d’Europa
Prendiamo il solo Vecchio continente. Le prime quattro nazioni per numero di ore lavorate nel corso dell’anno sono nell’ordine Grecia, Ungheria, Polonia ed Estonia. Le ultime quattro nella classifica della produttività (cioè quelle in cui a ogni ora lavorata corrisponde una minore fetta di prodotto interno lordo generato) sono Estonia, Polonia, Ungheria e Turchia. In pratica, tre delle quattro più stakanoviste. Al contrario, le nazioni dove si lavorano meno ore in assoluto (Olanda, Germania, Norvegia e Francia) nella classifica degli Stati più produttivi si collocano rispettivamente al quinto, settimo, primo e sesto posto.
Non serve lavorare tanto
Strano? No: «Oggi quantità e qualità del lavoro non sono più intercambiabili», spiega Alberto Mingardi, economista e direttore generale dell’Istituto di studi sul libero mercato Bruno Leoni. Nelle moderne economie della conoscenza infatti il lavoro è sempre meno un’attività materiale e sempre più impegno creativo: «Non si può pensare di compensare una bassa produttività semplicemente lavorando più ore», aggiunge. Del resto, a livello mondiale, ai vertici delle economie disastrate ci sono proprio i Paesi che apparentemente lavorano di più: sono infatti i messicani al top delle ore annue (2250), ognuna delle quali contribuisce però al Pil nazionale per soli 17,3 dollari Usa contro i 45,6 del nostro Paese, cifra comunque ben lontana dagli 83 della Norvegia.
Posto fisso? Una chimera
La lezione da trarre, che ci piaccia o no, è che dobbiamo lavorare diversamente: sempre più da imprenditori di noi stessi. «In Italia però esiste una tradizione secondo cui la priorità è avere un posto fisso, sicuro, non soggetto alle fluttuazioni», aggiunge Mingardi. Peccato solo che si tratti di un’idea di lavoro irrealizzabile nell’economia della conoscenza. «Nel nostro Paese – prosegue l’economista – veniamo educati a considerare il lavoro in un’ottica di sfruttamento e non di collaborazione». Così, in un mercato del lavoro rigido e scarsamente meritocratico come il nostro, si è insinuata l’idea secondo cui il lavoro deve essere assicurato dalle istituzioni pronte a difendere i cittadini dai danni del profitto imprenditoriale. Non stupisce quindi che per un 31 per cento del campione intervistato nel corso di un recente sondaggio condotto da Demos insieme a Coop il pubblico impiego sia tornato nuovamente il miraggio a cui aspirare.
Mettersi in gioco davvero
Cosa possono fare quindi i giovani che entrano in questo mercato? «Mettersi in gioco inserendosi in contesti umani e professionali meno provinciali e familiari. Ad esempio facendo esperienze all’estero», aggiunge Serafino Negrelli, sociologo dell’economia all’Università Milano Bicocca e autore del recente Le trasformazioni del lavoro (Laterza). Perché conservare lo stato di fatto restando attaccati al presente per paura del futuro può solo trasformare l’incertezza in una condanna.
L’articolo completo su Airone, aprile 2013