Una sola cucina indiana non esiste. È da questa considerazione che bisogna partire per comprendere varietà e complessità delle mille tradizioni gastronomiche di questo subcontinente, che con i suoi quasi tre milioni e 300mila chilometri quadrati è il settimo Paese più esteso al mondo. Federazione di 25 stati e sette territori, l’Unione indiana (Bharat Juktarashtra) attraversa quasi trenta gradi di latitudine da nord a sud e 7.517 chilometri. Inevitabili quindi le differenze geografiche, in un Paese che ospita sei tipologie climatiche. Risultato: culture e colture cambiano da zona a zona.
Eppure non è questo quello che trovano gli europei che si avvicinano alla cucina indiana. Il motivo lo spiega Ashwinder Singh, titolare a Milano del ristorante Tara: «Solo una delle nostre tradizioni culinarie è rappresentata dai locali indiani in Europa: quella del Punjab, nel nord-ovest del Paese». I piatti del nord sono infatti i più facilmente proponibili ai palati occidentali, suddivisibili in portate simili a quelle occidentali: «Dopo un antipasto, che fa la parte del leone, a base di piatti al curry o cotti al tandoori, il tradizionale forno d’argilla utilizzato anche per cuocere il nostro pane chapati – spiega Ashwinder – si passa generalmente a un piatto a base di verdure o legumi, una sorta di primo, per poi concludere con uno di carne». Re della cucina indiana è il curry, naturalmente. Attenzione, però: quello indiano non ha nulla a che vedere con la gialla spezia che troviamo in Occidente. «La parola “curry” indica una miscela di spezie, diversa da piatto a piatto e da regione a regione», spiega il ristoratore. Tanto che, fatte salve poche semplici materie prime di base, il sapore di ogni pietanza è ricreato principalmente da un sapiente mix di spezie in diverse proporzioni.
L’influenza più recente è però quella britannica: da metà Ottocento fino all’indipendenza, dichiarata nel 1947, la colonizzazione della Corona ha portato tè, biscotti e dolci. Ma non solo: molti cuochi indiani hanno cercato negli anni di riproporre i piatti inglesi con ingredienti locali. Il risultato? Pietanze ibride oggi alla base di una cucina indiana internazionale che possiamo assaggiare, ad esempio, tra le bancarelle di Camden Town, a Londra. Una su tutte il chicken tikka masala, rivisitazione di un piatto tradizionale a base di pollo (intero) cotto al tandoori, tagliato e cotto nuovamente in una salsa a base di pomodoro. Ma con una differenza: «Gli inglesi hanno iniziato a usare direttamente i petti di pollo: non volevano sporcarsi le mani», ironizza Ashwinder.
L’articolo completo su Eathnic, numero 5