La crisi? Nella tazzina

Se la pizzeria al trancio ha aumentato il costo di ogni porzione (magari sempre più piccola) forse non è così grave: ne possiamo fare a meno. Purtroppo però sono anche i beni di prima necessità a essere diventati sempre più cari, specie negli ultimi mesi. Così ecco il biglietto dell’autobus, passato ormai da una media di un euro a un euro e 50 in quasi tutte le grandi città. Ultima in ordine di tempo è stata Roma dove, a maggio, il nuovo biglietto è stato accolto da proteste e mobilitazioni. A giugno, sempre nella Capitale, i prezzi al consumo sono saliti dello 0,3 per cento rispetto al mese precedente e del 3,5 su base annuale.

Come se non bastasse, secondo un rapporto Istat datato luglio 2012 nel nostro Paese otto milioni di persone vivono al di sotto del livello di povertà, individuato dall’Istituto di statistica in un reddito di 1.011,03 euro per una famiglia di due componenti. E se i redditi diminuiscono, l’aumento del costo della vita (il dato statistico calcolato in base all’incremento del costo di prodotti e servizi di maggior consumo, cresciuto a giugno del 3,1 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente) dà il suo pesante contributo. Ma perché in una fase di recessione le aziende non abbassano i prezzi, ma anzi li aumentano? «Le possibili spiegazioni sono diverse – racconta Giuseppe Ferraguto, responsabile del corso di macroeconomia all’Università Bocconi di Milano –. La prima è l’aumento dei costi di produzione che le aziende non possono accollarsi interamente: se lo facessero, fallirebbero. Ma questo aumento non può nemmeno essere compensato con il solo incremento del prezzo al dettaglio: il rischio in questo caso sarebbe un calo delle vendite. L’unica possibilità è quindi quella di trasferire sul prezzo finale solo una parte delle maggiori spese sostenute».

Se le aziende continuano a vendere, quindi, è grazie al principio dell’elasticità della domanda: «Di certi beni, come i carburanti o il pane, non possiamo fare a meno. Così l’aumento è assorbito dalla collettività, suo malgrado». L’ultimo riguarda la tazzina di caffè al bar: una vera provocazione per gli italiani. Secondo una rilevazione del Corriere della Sera, negli ultimi anni l’espresso a Palermo è passato da 70 a 90 centesimi, a Roma da 80 a 90 mentre a Milano da un euro a un euro e 20. «Questi aumenti sono in genere legati al costo delle materie prime», spiega Ferraguto. Diversa invece l’opinione delle associazioni dei consumatori: Carlo Rienzi, presidente del Codancons, parlando del “caro tazzina” spiega ad esempio che l’aumento del costo della polvere di caffè è un falso.

La speculazione sarebbe infatti l’altra faccia della crisi. Lo vediamo nei prodotti alimentari: se nel primo trimestre 2012 i prezzi dei 46 alimenti monitorati da Unioncamere sono aumentati del 4 per cento (con picchi del 9 per la passata di pomodoro e dell’8 per caffè, zucchero e carni di bovino), i costi delle materie prime sono sostanzialmente rimasti invariati dai primi mesi del 2011. Quale allora la spiegazione? Secondo Ferruccio Dardanello, che di Unioncamere è presidente, i problemi stanno nella distribuzione dei prodotti. In campo alimentare infatti, oltre ai fattori fuori dalla portata della politica economica come quelli ambientali, l’eccessiva lunghezza della catena distributiva è un grosso handicap, in Italia. Tuttavia l’aumento ingiustificato dei margini di profitto riguarda più frequentemente i settori meno concorrenziali, come assicurazioni ed energia: se dotare l’auto dell’Rca costa il 3,5 per cento in più rispetto a due anni fa, le bollette di gas ed elettricità hanno registrato tra aprile e maggio una crescita, rispettivamente, pari all’1,9 e al 5,8 per cento. La ragione? «La scarsa propensione italiana ad attuare politiche di vera liberalizzazione del mercato, specie in alcuni settori come quello assicurativo – spiega il professore della Bocconi –. Senza dimenticare la forte pressione fiscale che certo non aiuta».

L’articolo completo su Airone, settembre 2012

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