L’italiano dei posteri

Ci sono voluti quarant’anni ma alla fine anche i Barbapapà, i celebri fumetti francesi degli anni Settanta, sono entrati nello Zingarelli. La parola barbatrucco (una soluzione geniale che toglie da ogni impiccio), usata dai famosi pupazzetti colorati, è uno degli oltre 1.500 neologismi che aggiornano la versione 2011 del blasonato dizionario. Assieme ad apericena, archistar, cinecocomero, emo, gollonzo, impanicarsi, pinocchietto e tanti altri. La lingua italiana dopo secoli di stasi è oggi in piena evoluzione. L’italiano è diventato una “lingua di plastica”, secondo la definizione della ricercatrice fiorentina Ornella Castellani Polidori. Le parole si ottengono cioè quasi per sintesi chimica di termini stranieri, gergali e dialettali. Al contrario, sintassi e morfologia sono più o meno le stesse dell’italiano di Petrarca e Boccaccio. «Da quando, nel corso del Novecento, l’italiano scritto è diventato dominio di tutti e non più solo di chi aveva studiato, il mutamento linguistico ha cambiato marcia», spiega Giovanni Gobber, professore di linguistica generale all’Università Cattolica di Milano. «L’immagine delle parole scritte ha aiutato i parlanti a fissare nella mente la pronuncia, che ha iniziato a standardizzarsi. Un cambiamento fondamentale negli anni Cinquanta quando l’immigrazione interna mise in secondo piano i dialetti locali: per capirsi lombardi e pugliesi dovevano parlare la stessa lingua, cioè l’italiano». E oggi? Secondo i dati di una ricerca pubblicata nel 2005 dall’Università di Castel Sant’Angelo, la fetta di italiani che sa parlare e scrivere la propria lingua corrisponde all’88 per cento, un dato ben lontano da quel 2,5 per cento di metà Ottocento. Un italiano parlato peraltro più o meno omogeneo in tutta la Penisola. Alcuni anni fa il celebre linguista Tullio De Mauro aveva condotto uno studio: registrando le conversazioni al telefono, per strada e sui mezzi pubblici di 1.653 italiani distribuiti tra Milano, Bologna, Firenze e Napoli arrivò a concludere che la lingua parlata nel Paese è sostanzialmente una sola. Forse un po’ più povera di quello che si sperava: delle 150mila voci presentate in un dizionario medio, ne usiamo al massimo 5mila. Da queste premesse si può ipotizzare come evolverà la nostra lingua? «Fare previsioni è praticamente impossibile: troppa complessità e variabilità», spiega Nicoletta Maraschio, presidente dell’Accademia della Crusca, la più importante istituzione italiana a tutela dell’italiano. Quel che è certo è che alcune tendenze in atto permettono agli studiosi di formulare ipotesi plausibili. È probabile ad esempio che l’italiano che parleremo e scriveremo tra cento anni sarà più semplice e meno irregolare. Ad esempio nell’ortografia: ritorneranno a diffondersi, paradossalmente, lettere di origine classica (greca e latina) o straniera come la k, la x e la y (baby sitter, ok e xilophono sono parole ormai a tutti gli effetti italiane). «Ci sarà sempre più tolleranza in fatto di ortografia – aggiunge Gobber  –. Già oggi vengono accettate come corrette forme ortografiche prese dai dialetti, come c’ho, mutuata dal romanesco». «Inoltre – prosegue Maraschio – a stare a certi errori molto diffusi, come un’amico e qual’è, è probabile che nell’italiano del futuro si arrivi a una semplificazione delle regole sull’apostrofo, che sarà usato in ogni caso anche quando non dovrebbe esserci».

L’articolo completo su Airone, agosto 2011

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