Un articolo apparso ad aprile sulla rivista American Scientist ha riaperto il dibattito: fino a che punto è giusto permettere alla macchina della verità di entrare in tribunale? Tema scottante soprattutto perché oggi il poligrafo – cioè il tradizionale strumento per distinguere la menzogna dalla verità attraverso la rilevazione della variazione di parametri fisiologici come le pulsazioni cardiache, la conduttività della pelle, la respirazione e la pressione sanguigna – è ormai superato. Oggi la verità si accerta, con buone percentuali di successo, grazie alla risonanza magnetica e ai progressi delle neuroscienze. I risultati migliori sembra darli il brain fingerprinting, un sistema basato sull’analisi dell’elettroencefalogramma. Utilizzando tecniche non invasive, questa tecnologia analizza la variazione delle onde cerebrali di un soggetto sottoposto a un determinato stimolo. Studiando particolari onde elettriche denominate P300 sarebbe possibile valutare se l’interrogato sta riconoscendo l’immagine di un sospettato o quella di un evento chiave per le indagini. E, in ultima analisi, se nella sua memoria è presente un ricordo correlabile a un certo crimine. Ma il problema non è questo, forse. Siamo infatti convinti di sapere cos’è la verità? E soprattutto, esiste una verità oggettiva? Neurologia e filosofia, insieme, sono ancora sulle sue tracce…